LA CRISI INVISIBILE: IL SUDAN DA AL-BASHIR AD OGGI

LA CRISI INVISIBILE: IL SUDAN DA AL-BASHIR AD OGGI

di IRENE PANOZZO

 

All’alba del 3 giugno 2019, mentre il paese iniziava l’ultimo giorno di digiuno in vista dell’Eid al-Fitr, la festa di fine Ramadan che sarebbe iniziata quella sera, le forze militari sudanesi attaccarono un sit-in davanti al quartier generale dell’esercito, nel cuore di Khartoum, che andava avanti da quasi due mesi. Aprile e maggio sono i mesi più caldi in Sudan e il secondo mese di sit-in era coinciso con il Ramadan, quindi con lunghe ore di digiuno totale sotto il rovente sole sudanese. Eppure i manifestanti per la democrazia — soprattutto giovani, di entrambi i sessi — erano rimasti in quello che dal 5 aprile era diventato una sorta di vasto accampamento colorato, pacifico, luogo di creazione artistica e di grande solidarietà non solo tra i partecipanti al sit-in, ma anche di parte della popolazione della capitale, che ai manifestanti continuava a portare il necessario per andare avanti.

 

Nei sei anni passati da quel cruento ultimo giorno di Ramadan molte cose sono successe in Sudan. Alcune positive e di grande speranza, altre — molte, troppe altre — di estrema violenza e gravità. Scorrere le notizie sudanesi, anche solo quelle dei giorni a ridosso del recente anniversario del massacro del sit-in, è un esercizio per cuori forti. Una violenta epidemia di colera sta mietendo vittime nello stato di Khartoum, cuore geografico, economico e politico del paese, dove si trovano la capitale e le sue città gemelle, Omdurman e Bahri. Secondo i dati di ECHO, il braccio umanitario della Ue, a maggio i casi ufficialmente registrati sono stati 7000, un aumento del 400% rispetto al mese precedente. Mentre Medici Senza Frontiere, altre organizzazioni internazionali governative e non governative e quel pochissimo che rimane delle strutture sanitarie nazionali cercano di far fronte all’aumento esponenziale dei casi, nei primi giorni di giugno due gravi attacchi hanno causato molte vittime civili in Darfur, la regione più occidentale del paese. Nel primo caso, un attacco aereo delle forze armate sudanesi (l’esercito nazionale, SAF secondo l’acronimo inglese) sul mercato della cittadina di Al-Koma, nello stato del Darfur settentrionale, ha fatto diverse decine di morti e molti più feriti. Due giorni dopo un convoglio umanitario di UNICEF e Programma Alimentare Mondiale è stato colpito da un drone, non è ancora chiaro sganciato da chi, che ha causato l’incendio di diversi camion di aiuti alimentari e la morte di 5 operatori umanitari. Il convoglio stava viaggiando in direzione di el-Fasher, la capitale del Darfur settentrionale. Ovvero l’unica delle capitali dei cinque stati del Darfur che è rimasta nelle mani delle SAF e che da più di un anno è sotto assedio da parte delle Forze di supporto rapido (RSF, Rapid support forces), il gruppo paramilitare che guida il fronte opposto a quello dell’esercito nella guerra senza quartiere iniziata il 15 aprile 2023.

 

SAF e RSF sono state a lungo due dei pilastri dell’architettura di sicurezza del regime di Omar al-Bashir, il generale che il 30 giugno 1989 aveva preso il potere con un colpo di stato militare sostenuto dal Fronte nazionale islamico, come si chiamava all’epoca il partito islamista sudanese legato ai Fratelli musulmani egiziani. Durante i suoi decenni al potere Bashir ha formalizzato la politica di “contro-insurrezione in economia” iniziata dai suoi precedessori per combattere la guerra civile nella regione meridionale del Sudan: armare e dare carta bianca per qualsiasi crimine e razzia a milizie locali reclutate su base tribale, dando loro copertura aerea usando l’aeronautica nazionale, era diventata la politica ufficiale non solo in quello che nel 2011 sarebbe diventato il Sud Sudan indipendente, ma anche nella guerra civile iniziata in Darfur nel 2003. In quest’ultimo caso si era trattato soprattutto di milizie arabe comunemente note come janjawid (ovvero “diavoli a cavallo”), che a metà degli anni Dieci lo stesso Bashir aveva strutturato in un gruppo paramilitare vero e proprio,  le RSF, da portare a Khartoum come guardia pretoriana per difendere il proprio regime da eventuali colpi di stato.

 

Quando a metà dicembre 2018 la rivoluzione sudanese è iniziata — giovane, spontanea, democratica, organizzata nelle città da comitati di resistenza su base di quartiere per aggirare la repressione del regime — SAF e RSF avevano fatto fronte comune. Prima per difendere Bashir, poi per sacrificarlo deponendolo l’11 aprile 2019, in risposta all’inizio del sit-in. Di fronte all’insistenza dei manifestanti che continuavano a chiedere che i militari lasciassero il potere per avviare una transizione democratica a guida civile, insieme avevano risposto con la violenza, quel 3 giugno del massacro sulle sponde del Nilo. Ma poi, visto che la resistenza continuava, avevano accettato di negoziare con i rappresentati del fronte civile rivoluzionario (gruppi professionali, partiti politici di opposizione, sindacati, ecc.) dando così vita, nel settembre di quello stesso anno, a una formula transitoria di coabitazione: una presidenza collettiva, il Consiglio sovrano, composta sia da militari che da civili e un governo tecnico guidato da un ex economista delle Nazioni Unite, Abdallah Hamdok. Nel Consiglio sovrano i militari avevano tenuto per sé la leadership: il capo dell’esercito, generale Abdelfattah al-Burhan, ne era diventato il presidente, il leader delle RSF, generale Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemedti”, il vicepresidente.

 

Solo a quel punto le manifestazioni di protesta si erano fermate. Per ricominciare con forza a fine ottobre 2021, quando dopo due anni di faticosa coabitazione, Burhan e Hemedti hanno esautorato il primo ministro Hamdok, arrestato diversi ministri e leader del fronte civile e di fatto posto fine alla transizione democratica con un auto-putsch. Di fronte ai ripetuti tentativi da parte della comunità diplomatica guidata da Onu e Unione Africana di far dialogare le varie parti per cercare di far ripartire la transizione, mentre i comitati di resistenza continuavano le proteste nonostante la violenta repressione dei militari di nuovo da soli al comando, i molti punti di tensione tra le due leadership militari hanno iniziato a emergere con sempre maggior chiarezza. Fino a portare, nella mattina del 15 aprile 2023, allo scoppio della guerra. Combattuta, per la prima volta nella storia del Sudan, nei quartieri più centrali della capitale.

 

In poco più di due anni di guerra, il Sudan è diventato la più grande e grave crisi umanitaria del mondo. Peggio di Gaza e dell’Ucraina. Su una popolazione stimata di circa 50 milioni di sudanesi, 12 milioni sono stati costretti a lasciare le loro case: circa 8 milioni rimanendo all’interno dei confini nazionali da sfollati interni, altri 4 trovando rifugio nei paesi limitrofi. Tra cui Sud Sudan e Ciad, a loro volta tra i paesi più poveri e fragili del mondo. Secondo alcune stime, il numero dei morti, forse ancora sottostimato, si aggirerebbe attorno ai 150mila. In diverse aree, soprattutto in quelle che sono state teatro di maggiori scontri, è stata dichiarata la carestia, con milioni di persone a rischio di morte per fame.

 

Secondo una recente analisi di Reuters, per ricostruire le infrastrutture civili distrutte in questi due anni, soprattutto a Khartoum e nelle città gemelle, ci vorranno diverse centinaia di miliardi di dollari. Ammesso che il conflitto finisca a breve. Ma non c’è nessuna indicazione che le due parti in guerra abbiano intenzione di fermarsi. O che i loro sostenitori internazionali — Egitto, Iran, Qatar, Turchia e, più sfilata, Arabia Saudita per SAF, gli Emirati Arabi Uniti e alcuni paesi confinanti con il Sudan su cui Abu Dhabi ha molta influenza per RSF — siano pronti a fare pressione affinché le armi si fermino. La linea del fronte continua a muoversi. A marzo le SAF hanno riconquistato Khartoum, rimasta nelle mani delle RSF dall’inizio del conflitto. Anche se per il momento nella capitale non si combatte, scontri aperti continuano a ovest, sia nella regione del Kordofan che in Darfur. Come continuano gli attacchi aerei di SAF e quelli con i droni di RSF, che negli ultimi mesi hanno preso di mira anche infrastrutture di Port Sudan, la città sulla costa del Mar Rosso che dall’inizio del conflitto funge da capitale temporanea.

 

Le prime vittime del conflitto rimangono però i civili. Sia perché molti degli attacchi prendono in mira chiunque, indiscriminatamente, sia perché in alcune aree del paese la guerra attuale ha riattivato conflitti o tensioni precedenti, anche su base etnica, portando a massacri mirati di determinati gruppi. Sia infine perché sia SAF che RSF continuano ad avere un avversario comune: quell’ampia, variegata, spesso molto litigiosa società civile che ha animato la rivoluzione e che in questo momento è indebolita e sparsa. Ma che sopravvive e, tra le altre cose, anima quei comitati di risposta d’emergenza che dall’inizio della guerra cercano di portare aiuti umanitari dove alle organizzazioni internazionali è impedito andare.



Articolo originale in Italiano.