
“MI GRADIMO SOCIALIZEM”: STORIA DELLA NASCITA DI NOVA GORICA
di ELIA GOMŠČEK
Ancora oggi alcuni goriziani e moltissimi forestieri vedono le città di Gorizia e Nova Gorica come la versione italo-slovena di Berlino Ovest e Berlino Est, ossia una città unica che fu divisa dai due blocchi del Novecento. La zona occidentale assegnata al blocco capitalista e la zona orientale a quello socialista. Ma non è così, o meglio, ci sono senz’altro delle analogie tra la capitale tedesca e le «due Gorizie», ma sono molte meno di quello che si possa pensare.
La narrazione della «città divisa in due» può essere smontata semplicemente dal fatto che Nova Gorica nasca solo successivamente al secondo conflitto mondiale e alla firma dei trattati di pace di Parigi del 1947 che spartivano questi territori tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Quindi Gorizia e Nova Gorica non furono mai divise, piuttosto possiamo dire che venne separata una parte del retroterra goriziano dal centro cittadino. Gli insediamenti di Solkan (Salcano), Šempeter (San Pietro), Vrtojba (Vertoiba) e Miren (Merna) si ritrovarono da un giorno all’altro divisi dal loro centro amministrativo di riferimento. Non è un caso che Šempeter abbia ancora nel nome «pri Gorici» (di Gorizia), data la sua continuità territoriale che ha con Gorizia, ma che non ha con Nova Gorica che è invece situata dall’altra parte del bosco del Panovec.
Bisogna dire che alcune piccole parti della città di Gorizia vennero effettivamente separate dal confine, ad esempio la stazione settentrionale, oggi stazione di Nova Gorica, la Kostanjevica (Castagnevizza), dove sorge l’omonimo monastero, il Rafut, Pristava (Prestava) e Rožna Dolina (Valdirose), dove possiamo trovare ancora oggi il cimitero degli ebrei goriziani. Pertanto, a parte queste poche zone, la quasi totalità di Gorizia venne assegnata all’Italia imponendo un confine rigido con i paesi satelliti di Solkan, Šempeter e Miren, che precedentemente hanno sempre fatto riferimento a Gorizia e da un giorno all’altro si sono ritrovati a ridosso di un confine «invalicabile» e isolati da tutti gli altri.
Nell’immediato secondo dopoguerra, per tutti questi paesini la città più vicina dal loro lato del confine diventava Ajdovščina (Aidussina), distante quasi 30 km. È chiaro che questi paesi avessero bisogno di un nuovo centro urbano che gli garantisse i servizi rimasti oltrefrontiera, come un ospedale, un tribunale, una grande biblioteca, dei negozi etc. Da questa esigenza nasce l’idea della fondazione di Nova Gorica. Una città che non solo potesse soddisfare le suddette necessità, ma che potesse essere anche un modello urbanistico e di società socialista per la Slovenia, l’intera Federazione e soprattutto per i «vicini capitalisti». Il segno più emblematico di questo voler essere modello è la stella rossa posizionata in cima alla stazione della Transalpina con alla base la scritta in caratteri cubitali «mi gradimo socializem», ossia «noi stiamo costruendo il socialismo».
La zona dedicata alla costruzione della nuova città non venne decisa immediatamente. Tra le proposte c’erano gli ampliamenti di Ajdovščina, Tolmin (Tolmino), Rožna Dolina e Ajševica (Aisovizza), che vennero quasi subito liquidati. Le due proposte più popolari erano i campi a sud di Solkan e la zona tra Šempeter e Vrtojba. Vennero valutati moltissimi fattori tra i quali la popolazione, la posizione strategico-militare, la qualità della terra, il vento etc. L’opzione settentrionale ebbe la meglio, tra Salcano, Grčna, il Panovec e la stazione nord.
Per la dirigenza jugoslava era l’occasione di poter pianificare una città da zero a misura della nuova società socialista che si stava plasmando e l’occasione di poterla sfoggiare dinanzi agli occhi del mondo capitalista. La costruzione di Nova Gorica fu dunque, non solo una risposta pratica all’isolamento dei villaggi sloveni tagliati fuori da Gorizia, ma divenne presto anche un progetto politico-ideologico di grande valore simbolico. Il nuovo insediamento doveva incarnare i principi dell’urbanistica socialista e riflettere la modernità, l’efficienza e l’uguaglianza promosse dal sistema jugoslavo. L’intera pianificazione della città fu orientata alla creazione di uno spazio funzionale, collettivo e ideologicamente congruo: ampi viali, spazi verdi, piazze aperte, edifici pubblici monumentali e quartieri residenziali pensati per la vita comunitaria. L’architetto Edvard Ravnikar, figura centrale nella progettazione iniziale, cercò di coniugare modelli di modernismo europeo con esigenze locali. Nova Gorica si presentava come un laboratorio urbano, costruito da brigate giovanili provenienti da ogni angolo della Jugoslavia, incarnando l’ideale di unità e cooperazione fra le repubbliche federate. Ogni pietra posata non era solo materiale edilizio, ma rappresentava anche un atto politico, una dichiarazione di esistenza e autodeterminazione davanti al confine, alla storia e al mondo. Nova Gorica non era solo una città nuova, ma un manifesto in cemento armato di un’epoca.
Poco dopo l’inizio dei cantieri le risorse economiche cominciarono a scarseggiare e gli interessi locali presero il sopravvento, cosicché dell’originale piano di Ravnikar venne realizzato ben poco e lo stesso architetto la definì senza mezzi termini una tragedia. L’attenzione del governo centrale si spostò su altri progetti e la responsabilità passo alle autorità locali.
A 78 anni dalla sua fondazione, possiamo serenamente dire che non è andato tutto secondo i piani, ma non mi permetterei neanche di affermare che si tratti di un fallimento o di una tragedia. Nonostante non nascano come una città unica, oggi Nova Gorica e Gorizia, insieme a Šempeter, funzionano come una sola grande città dove i loro abitanti, indifferentemente dalla lingua e dalla cittadinanza, si spostano liberamente all’interno di questo spazio.
Articolo originale in Italiano.