QUANDO GUIDO PIOVENE VISITO’ LE NOSTRE TERRE

QUANDO GUIDO PIOVENE VISITO’ LE NOSTRE TERRE

di ANDREJ DROSGHIG

 

Non avevo mai sentito nominare Guido Piovene prima di un fortunato incontro, ad una bancarella dell’usato: Viaggio in Italia, la sua opera più nota. Sfogliando qualche pagina, mi colpì subito lo sguardo di un osservatore fedele, che rielabora e riflette, separando però ciò che vede da ciò che ne pensa; un libro allo stesso tempo giornalistico, documentato, ed estremamente colto – con qualche pennellata di poesia qua e là. Non manca qualche giudizio duro da digerire oggi: ma erano gli anni ’50 ed è da vedere, a mio avviso, come figlio di quel tempo. 

 

Il viaggio da cui è tratto il libro – che ripropone testi utilizzati per una trasmissione radiofonica – si svolse da maggio 1953 a ottobre 1956. Sono i tempi della gioventù dei miei nonni e di altri loro coetanei, a me cari; i tempi in cui (banalizzando la loro nostalgia) “la guerra era passata, era dura, ma con poco si era felici, e sapevamo che si andava in meglio”. I loro racconti trovano perfettamente posto nel quadro tracciato dal libro; è proprio la cornice di cui ho sempre avuto bisogno. Man mano che Piovene gira l’Italia provincia dopo provincia, si ferma ad osservare dinamiche e fenomeni locali, o generali, transitori o duraturi e (forse) distintivi del carattere. Tematica ricorrente in Piovene è ad esempio l’aumento dei bisogni: dice dell’Umbria, ma potrebbe benissimo applicarsi a qualsiasi delle nostre zone rurali: “L’equilibrio riposa, o riposava fino a qualche tempo fa, sullo scarso bisogno di consumi, sull’inappetenza di beni. (…) “e descrive i cambiamenti come “stanchezza dell’astinenza, bisogno d’aver bisogni”.

 

Precisando che “non faccio interviste, le reputo inutili, a me interessa incontrare uomini, caratteri”, Piovene riferisce le opinioni di industriali, prelati, artisti, intellettuali, come anche di persone incontrate sulla via. Riporta dati statistici sulla situazione corrente, specie economica; rivolge però allo stesso tempo anche una grande attenzione per le cose irripetibili che vede più minacciate dal cambiamento tumultuoso di quegli anni: le tradizioni scalzate da nuovi stili di vita, i paesaggi e i centri storici sotto i colpi della speculazione edilizia. Ciò che egli vede, lo precisa spesso, è un’istantanea.

 

Quando nel 1953 Piovene raggiunge la nostra Regione, questa amministrativamente non esiste ancora ed è ricompresa nelle “tre Venezie”. Entrando nel Friuli pordenonese dal natio Veneto, la vive come” il varco per il quale si sfugge ad una soverchia bellezza, il gusto della libertà e dell’ignoto” con i suoi “monti solitari da cui scendono ombre viola nella pianura”.  E poi Udine, dove incontra l’allora arcivescovo monsignor Nogara, i castelli delle colline moreniche con la sua nobiltà ormai decaduta, i friulani popolo chiuso e silenzioso, “la strana sensazione di un cinema a colori ma muto e senza musica”. Pordenone, con le sistemazioni agrarie del Meduna-Cellina, Cividale, con la sua Messa dello Spadone apprezzata dagli americani allora di stanza a Trieste, Grado con le sue anziane donne che pregano dentro Santa Maria delle Grazie, “esemplari esagerati delle nonne del Veneto, il Paese del mondo in cui la nonna ha più importanza”, Aquileia con i suoi mosaici “più belli del mondo” e infine Venzone, con le sue mummie. 

 

Tra le grandi tematiche, l’autonomia. “Come nell’Alto Adige ho ascoltato lunghe diatribe sull’autonomia raggiunta, qui ascolto argomenti sull’autonomia da raggiungere. (…) Mi chiedo quanti sanno che l’autonomia del Friuli è già stata concessa dalla Costituente nel 1947, e tenuta in sospeso. Questa legge, che non tutti approvano, dovrebbe unire tre città, Trieste, Gorizia ed Udine, in un’unica regione autonoma. Capitale Udine, almeno secondo i friulani. (…) Gli argomenti dell’autonomia sono colti, un miscuglio di europeismo e folclorismo. L’originalità del Friuli non è mai stata negata attraverso i secoli. Col suo milione di abitanti questo è un luogo d’incontro di tre civiltà, latina, slovena e germanica, e di tre razze in armonia.

 

Scendendo a Trieste, ecco Gorizia.

 

Gorizia era una gaia cittadina borghese. (…) Centro di smistamento tra le vallate dell’Isonzo e del Vipacco e la pianura udinese e padana, emporio della produzione artigianale, agricola delle valli ora jugoslave, Gorizia era soprattutto un mercato. Ora i commerci sono morti, decade il ceto commerciale e tuttavia nessuno emigra. Tra le città italiane Gorizia ha forse la più alta percentuale di disoccupati. A oriente si stendono le grandi selve, ma il confine che passa rasente l’abitato l’ha privata anche del suo patrimonio boschivo. Si è tentato di sostituire ai commerci l’industria mediante una zona industriale franca, ma con scarso sollievo: il futuro dipende dalla solerzia del governo. Gli sloveni sono un decimo circa dei circa 40.000 abitanti: piccole associazioni chiuse e viventi per conto proprio. Anche nei momenti più tesi l’ordine fu garantito dall’innato rispetto della legge di queste zone.  Il paesaggio verde, le ville, la lindura della città e l’educato contegno degli abitanti fingono una vita gaia e persino agiata. Ma sento fin d’ora pesare su di me la tristezza della divisione scavata da anni di cattiva politica fra razze legate un tempo da antiche consuetudini di convivenza patriarcale.” Si recò a vedere il confine della Transalpina, e riferì di un matrimonio svoltosi “di qua” con gli invitati sloveni rimasti di là del confine a salutare. 

 

Degli sloveni parla anche a Trieste: chiusi e impenetrabili sul poco Carso rimasto all’Italia, quasi invisibili in città. A Trieste arriva due mesi dopo il ritorno all’Italia; questo il sentire del momento. “Si ha paura delle qualità degli slavi: la dissimulazione, l’ostinazione, la coesione degli animi, la sete di affermarsi e di coltivarsi, e sotto, mi è stato detto, “un potente, insaziabile appetito”. Sono inferiori di cultura: lo saranno domani?” A Trieste, “il meglio costruito dei nostri porti”, ragiona a lungo con un economista (di cui non riporta il nome) sulla natura della città: “Come grande città Trieste fu una creazione politico-illuministica dell’impero austro-ungarico all’inizio del Settecento. (…) La qualità della sua origine rende Trieste succuba di ogni variazione della carta politica (…), in maggiore o minor misura Trieste avrà sempre bisogno dell’assistenza dello Stato.” Vi incontra poi il presidente dell’Ente Porto Industriale di Trieste, avv. Forti, il quale lamenta che “quanti (…) decidono delle sue sorti lo fanno astrattamente, ignorando l’ambiente di una città speciale”. Godibile infine il colloquio con Umberto Saba, nella sua libreria. Tra le conclusioni tratte: “A lunga scadenza Trieste si assicura all’Italia mantenendola nel suo ufficio di città cosmopolita e grande porto.” 

 

Piovene amò Trieste e la visitò varie volte, ospite di amici tra i quali Aurelia, figlia dello scrittore Silvio Benco; provò, e mise su carta, vivide emozioni anche riguardo il paesaggio carsico e il golfo. Se ne trovano richiami a più riprese nel testo; in La coda di paglia, opera del 1962, è il brano forse più ispirato al riguardo. 

 

Che mare strano ed esaltante è quello del litorale triestino. Drammatico, inverosimile appena un qualsiasi evento atmosferico gliene fornisce l’occasione. Era di un azzurro piombo, ma squarciato di luci rosse. All’orizzonte una nebbia incendiata come dai riflessi di una enorme fornace celeste, benché il cielo fosse coperto e non si vedesse il sole. Non ho mai visto un mare simile in uno dei nostri pittori. Per giungere a quella terrazza avevo poi percorso uno dei paesaggi cui sono più legato: il Carso col suo terreno roccioso e spesso di colore argento, ma cespuglioso, rivestito di muschi e di erbe aromatiche, macchiato l’autunno di tutti i toni del rosso, che sono infiniti.  (…) La macchina si fermava in piccoli villaggi rimasti quasi inalterati, penso da due secoli circa, giacché le chiese e le cappelle, nell’abitato o sperdute nella campagna con il cimitero accanto, sono graziose opere rustiche d’un Settecento minore. Raccolti intorno ad una piazza, con un albero al centro, quei villaggi non hanno nulla di segnalabile come specialmente bello. Pure sono stupendi, con i loro tetti ad altezza diversa, con i loro cortili irregolari a cui si accede per un portale a tetto sormontato da un architrave, su cui sono scolpite la data della costruzione e simboli sacri. “ 

 

L’opera, e la figura di Piovene, sono probabilmente ancora offuscate dalla compromissione con il fascismo, durata dagli esordi come giornalista negli anni ’30 fino al 1942; e proprio La coda di paglia racchiude un lungo memoriale di ammissione, confessione e contestualizzazione. Ma è anche una raccolta di opinioni che mostra un uomo – lui, figlio benestante di antica nobiltà vicentina – sospeso tra le fiduciose idee progressiste, la fede cattolica e il tormento per la ricerca di una realtà sfuggente, ricerca in parte tradita, per ammissione stessa di Piovene, durante i lunghi anni del regime. 

 

“Più passano gli anni più odio il tentativo di far credere agli altri di essere giunto a una chiarezza che in realtà non possiedo (…) Tutte le verità, piccole o grandi, hanno qualcosa di ritroso, cercano di sottrarsi e si circondano di nero come la seppia. (…) Io mi sforzo di ragionare in pubblico, con tutte le lacune, le intermittenze, magari le contraddizioni, che mi trovo davanti io stesso.” 

 

Questo modo di operare si nota benissimo anche nel Viaggio in Italia e muove qualche nostalgia pensare ai tuttologi sentenziatori tanto di moda nei media d’oggi.

 

Che cosa è per me la morte? Soprattutto la distruzione di cose che non sono io. Il mondo, che ho conosciuto (e non tornerà più), una villa, un amore, persone morte che non hanno lasciato un segno, cose che trovo altrettanto degne di vivere della poesia di Omero. Anche la loro, dopo la mia scomparsa, sarà definitiva. Per me il pensiero della morte è il tormento di essere depositario di un’epopea che si perde. E responsabile di qualche “punto di mondo” da salvare, sapendo di non essere capace di farlo.

 

Dalla lettura di queste due opere, l’idea che non ne sia stato capace va respinta: fosse anche solo per questi “punti di mondo” da lui salvati, il lavoro di Piovene, a cinquant’anni dalla sua morte, meriterebbe di essere riscoperto.

 

Citazioni tratte da:

Guido Piovene, Viaggio in Italia, Baldini & Castoldi, 1957, 1993, 1999

Guido Piovene, La coda di paglia, Mondadori, 1962



Articolo originale in Italiano.