
LA STRADA NAPOLEONICA
di MIRT KOMEL
La strada Napoleonica offre alcuni dei panorami più belli del Golfo di Trieste, e ci presenta un punto di ingresso a Trieste scavato nella roccia viva: sia concretamente, se la si dovesse attraversare intera per raggiungere la città, sia simbolicamente, se si prende e capovolge il vecchio detto sulla “via imperiale”, che si suppone sia il modo più semplice per raggiungere la meta.
Il mito narra che sarebbe stato costruita da Napoleone quando entrò a Trieste, ma a differenza dell’obelisco di Opicina, costruito in segno di gratitudine all’imperatore Francesco I, che di fatto fece costruire la strada tra Opicina e Trieste, non sembra esserci alcun fondamento per un nome così venerabile. Il nome ufficiale è Strada Vicentina, dal nome dell’architetto Giacomo Vicentini, che ideò il progetto e iniziò i lavori nel 1821, ma l’aspetto definitivo fu alla strada dato solo nel XX secolo, subito dopo la seconda guerra mondiale. Ma supponiamo, per amore di un esercizio mentale, che la Napoleonica sia davvero di Napoleone: se fosse davvero sua, non sarebbe la “via imperiale” di cui parla, perché è ben lungi dall’essere la via più facile per raggiungere la meta, cioè Trieste, al contrario, è “la più dura”.
Vale a dire, se dovessi partire, diciamo, come Rilke, da Duino a Sistiana, e da lì a Contovello, dove inizia la Napoleonica, dovrei prima attraversare in bicicletta o a piedi la boscaglia, “oscura e maledetta”, per raggiungere l’obelisco di Opicina, e poi non avrei altra scelta che scendere con lo stesso mezzo fino a Barcola o a Gretta, dato che il tram non è esattamente un’opzione. Perché, come sappiamo, è nato disgraziato, quindi ha lo status di una specie di gatto di Schrödinger (ora è, ora non è).
E se, allora, completassimo il vecchio detto sulla “via imperiale” come più facile con uno nuovo sulla “via napoleonica” come la strada più difficile verso la meta?
Se tale denominazione dovesse essere adottata, l’arrampicata dovrebbe certamente essere aggiunta a tutti i mezzi e i modi con cui si può percorrere la Napoleonica. La Napoleonica offre non solo alcuni dei panorami più belli di Trieste, ma anche alcuni dei gradini più belli d’Europa e, oserei dire, del mondo. Per quelli di voi che non si arrampicano, lasciate che vi spieghi che la “traversata” è un modo di arrampicare, che differisce dall’arrampicata su corda più alpinistica o dall’arrampicata sportiva su pietra in quanto non si sale e si scende, ma ci si sposta a sinistra o a destra (a seconda delle tue conoscenze, del sole, delle tue prese e talvolta del tuo orientamento politico).
Contrariamente a ciò che pensano i passanti, che gli scalatori si trovano costretti ad ascoltare, soprattutto nei fine settimana soleggiati, quando diventa così affollato che non c’è spazio, i pioli non sono fatti per “l’esercizio” – cioè, qui gli scalatori si stanno solo “allenando” per la cosa vera, e la “cosa vera” è ovviamente la corda – ovvero “la cosa stessa”. Non siamo in molti, eppure ci siamo, che non saliamo ma facciamo traversata, per di più nessuna traversata se non quella di Napoleone. Il livello di difficoltà è come se fosse dato dalla natura o dall’incidente di costruzione di come la roccia è stata minata (a proposito: quelle fessure praticate non sono state fatte dagli scalatori, ma sono state perforate in modo da poterci mettere dentro delle mine quando costruivano la strada): se si parte proprio da quel singolo albero che cresce dalla strada proprio accanto alla roccia, verso l’alto, aumenta a poco a poco, partendo da un quattro, che poi cresce fino a diventare un cinque, e al punto di rottura, che si riconosce rapidamente dal cambiamento, si passa a un sei, a volte anche a un sette (si riconosce questa parte dalla scritta che dà il nome a quella parte della traversata: Berto presente), e raggiunge il suo culmine al successivo punto di rottura, dove la roccia cambia completamente e forma uno strapiombo (un otto difficile che gli alpinisti più esperti di me dicono di sognare ancora dalla frustrazione).
C’è qualcosa sulla traversata (napoleonica) che è rilassante. Quel contatto con la roccia, che non cambia, ma rimane sempre la stessa, identica a sé stessa, tanto che richiede di adattarsi ad essa se la si vuole attraversare, può essere una grande, pratica, tangibile, petrosa metafora di quella biblica ben nota, che in forma rielaborata direbbe: “Roccia, dammi il potere di cambiare le cose, che posso cambiare, e la saggezza per capire quali non posso cambiare”.
Non credo di essere l’unico a voler scalare la Napoleonica per il resto della mia vita senza desiderare traguardi più alti o più forti. Ci sono alcuni alpinisti più anziani che sono in realtà per me un fulgido esempio quando, a sessanta, settant’anni, scalano ancora gli stessi gradini – forse non con la stessa forza e tenacia di quando erano giovani – eppure con la stessa perseveranza e, soprattutto, con piacere. È vero che tra alpinisti c’è una solidarietà comunista – nel senso più nobile del termine –simile a quella tra fumatori, e cioè che ci piace scambiarci sigarette, magnesio, merendine, consigli, ma non si può fare a meno di notare che le differenze di classe, di età, linguistiche e, non ultimo, nazionali caratterizzano anche la stessa traversata napoleonica (i gruppi sono raggruppati come dappertutto, e quindi secondo il principio empedocleiano: uguale con uguale, disuguale con disuguale).
Quello che voglio dire, in sintesi, è che lo scopo della traversata napoleonica è fine a sé stesso, perché il punto non è scalarla e passare promiscuamente alla successiva, ma scalarla. Conoscete quel meme su Robin che si avvicina a Batman dicendo “Ho finito Hegel”, al che Batman gli tira un manrovescio, accompagnato dalle sagge parole: “Nessuno ‘finisce’ Hegel!” Ebbene, lo stesso vale nel nostro caso: nessuno “finisce” la traversata napoleonica.
Prvotni jezik tega članka je slovenščina.