LA CITTÀ DEL CAFFÈ

LA CITTÀ DEL CAFFÈ

di MIRT KOMEL

Ogni città, se vuole essere davvero una città, deve avere caffè e caffetterie. E se è ormai risaputo che Gorizia è – anzi: Gorizie – la Capitale Europea della Cultura, Trieste è sicuramente la capitale europea – per non dire mondiale – del caffè.
E ciò non da quest’anno, non dall’anno scorso, ma dai tempi dell’Impero austro-ungarico.

Nel 1719 Carlo VI fece una dichiarazione che poi Maria Teresa attuò in pieno, ovvero: dichiarò Trieste Porto Franco. Così facendo, introdusse nella “finestra sul mondo” austro-ungarica un “libero mercato” che, come ogni “libero mercato”, non era affatto libero, ma, se ci limitiamo al caffè, si riforniva di materia prima direttamente dai paesi colonizzati, l’Etiopia e lo Yemen. Una bilancia mercantile ha sempre avuto bisogno di una spada per essere in grado di indicare correttamente il giusto rapporto tra prezzo e qualità dei propri prodotti.

I triestini sono caffeinomani dalla testa ai piedi, dalle sette del mattino alle cinque pomeridiane, e oltre ancora. Dal punto di vista della location, l’amore per il caffè è ovviamente flessibile, come testimoniano tutti i leggendari caffè che si possono visitare a Trieste, dal Caffè degli Spechi in Piazza dell’Unità d’Italia, il “salotto buono della città”, che ha recentemente introdotto i primi camerieri robotici per sostituire i precari, passando per il mitico Caffè San Marco con i suoi interni tradizionali e la moderna libreria, fino a Stella Polare sul Ponte Rosso, dove si trovano Joyce e Svevo, probabili padrini del fatto che a Trieste esiste il concetto di caffè letterario. Ma non devi per forza essere un letterato per goderti il caffè. Oggi il caffè è il piacere di tutti, ovunque. Si può prendere fuori, in un bar, oppure a casa, dalla caffettiera, si può prendere di strada dal distributore automatico, si può portare con sé in un thermos. Niente di strano. Qualsiasi posto è un buon posto per un sorsettino di caffè. Non si può dire lo stesso dell’ora.

In termini di tempo, bere caffè a Trieste è leggermente meno flessibile rispetto alla sua libera dimensione spaziale. Dio non voglia che dopo una certa ora – diciamo mezzogiorno – si ordini un cappuccino. Figuriamoci cappuccino e brioche. Perché allora verrai guardato in modo strano, come se fossi un marziano o uno sloveno. Cosa che probabilmente sei se hai ordinato un cappuccino e una brioche alle tre del pomeriggio. Non funziona. Oppure si può ordinare un nero, che è il termine triestino per espresso (ma non “ekspresso”, Dio non voglia, perché ogni volta che un Ljubljančan a Trieste dice “ekspreso”, qualcuno cade dalla moto e un angelo piange in una delle tante chiese).

L’espresso è accettato. E non solo alle cinque del pomeriggio, ma anche alle nove o alle dieci di sera, perché il caffè viene servito dopo cena. Il caffè in realtà a Trieste c’è sempre stato. Non c’è un’ora in cui non sarebbe opportuno. Anche nel cuore della notte, se la macchina è ancora in funzione. E in caso contrario, basta prendere la moka di casa e metterla sul fuoco – se si ha la fortuna di vivere a Trieste, o almeno di essere ospiti di qualcuno. E naturalmente di essere nel secolo giusto, perché in Friuli Venezia Giulia il caffè era roba da circoli aristocratici, che emulavano la moda di corte di bere caffè e cacao freschi di importazione all’epoca. Con l’ascesa della borghesia, il caffè divenne una cosa della classe media, che poteva essere offerta nei caffè come un’eccedenza di piacere, fornita dall’eccedenza di valore creata dal proletariato. Questi ultimi potevano permettersi solo il caffè di caffettiera, che permetteva agli operai di gustare la bevanda borghese a casa allo stesso modo in cui la borghesia lo gustava nei caffè. Insieme alla sigaretta, o con qualunque cosa, perché il caffè e la sigaretta vanno insieme, mano nella mano, come Joyce e Svevo.

La macchina del caffè, proprio come la caffetteria di casa, è, ovviamente, un’invenzione italiana.
L’ingegnere torinese Angelo Moriondo presentò la sua invenzione nel 1884 all’Expo di Torino, e nello stesso anno la registrò così: “Nuovi apparecchi a vapore per la confezione economica ed istantanea del caffè in bevanda. Sistema A. Moriondo”. Il milanese Luigi Bezzera perfezionò poi questa invenzione torinese a cavallo del secolo – cioè nel 1901, quando Saussure teneva le sue Lezioni di linguistica generale e Freud scriveva L’interpretazione dei sogni – e con la produzione in serie avviata da Desiderio Pavoni, la macchina da caffè da bar poté espandersi. Ma è solo nel dopoguerra, nel 1947 per l’esattezza, che Achille Gaggia perfeziona la macchina da bar con una leva che permette di ottenere un estratto di aroma più stretto che si traduce in quella crema distintiva che rende il caffè italiano quello che è, e con cui ovunque in Europa e nel mondo si può distinguere il caffè “buono” da quello “cattivo” con chiarezza biblica. A Trieste, forse il rappresentante più intraprendente degli imprenditori del caffè è Illy, che fondò Illycaffè nel 1933, e due anni dopo inventò Illylett, il “nonno delle macchine da caffè”, insieme a una speciale tecnica di conservazione del caffè sotto pressione, che permette a tutto il mondo di essere raggiunto dalla sua freschezza.

Le rivoluzionarie opere intellettuali di Freud e Saussure, citate sopra solo sulla base di coincidenze storiche, possono aiutarci a capire molte cose, tra cui il caffè di cui stiamo parlando qui. Saussure ha definito il segno linguistico come arbitrario, lineare, differenziale, e i caffè – se intesi come segno linguistico – aderiscono esattamente a questa stessa proprietà: il caffè è arbitrario perché la sua associazione è “assolutamente immotivata”, espressione della pura libertà dell’individuo che lo beve (nessuna necessità impone di bere caffè, ma una volta bevuto è necessario); il caffè è lineare, perché si capisce solo concatenandolo uno ad uno (proprio come le lettere che hanno senso solo quando le si mette in parole con altre lettere); Il caffè è, in fondo, differenziale, in quanto acquista significato solo in relazione ad altri caffè, con i quali forma un peculiare “sistema di differenze” (l’espresso differisce dal macchiato per una macchia di latte, e il secondo dallo sgociollato per una minuscola goccia di latte). Non è affatto un caso come si chiama il caffè, perché è il nome stesso che dà origine al desiderio: si vuole, in ultima istanza, non la sostanza (pura crema di caffè espresso o schiuma di cappuccino), ma la forma in cui la si pronuncia. Se sei un amante dell’espresso, allora sei prima di tutto un fan di ciò che questo caffè esprime attraverso il suo significante, e lo stesso vale per il monastico cappuccino, il machiavellico machiatto e così via.

L’inconscio è in vero strutturato come la parola, ma se abbiamo già citato Freud e Lacan, passiamo a citare Marx e Althusser, i quali dicevano che “l’ideologia è eterna quanto l’inconscio”. Di questo ce ne convinciamo proprio sulla base del caffè, che, come l’”essenza” di Aristotele, “si esprime in molti modi”. Non è affatto irrilevante, tornando lentamente a Trieste, come viene ordinato il caffè: se si dice, come si diceva nell’introduzione, “espresso”, il simpatico cameriere di Trieste saprà subito che ha a che fare con un “forešt” — correttamente, a Trieste, si chiama nero (perché il caffè in italiano è maschile, come: la differenza sessuale attraversa anche gli oggetti, come abbiamo scritto sotto il motto Pedoćina). Lo stesso vale per gli altri caffè, ovvero il fatto che a Trieste significano qualcosa di completamente diverso rispetto ad altrove, come, ad esempio, se si ordina un capo non si ottiene “cappuccino” come potrebbe sembrare al primo orecchio, ma un machiatto, ma se si vuole lo stesso in un bicchiere di vetro, si deve ordinare un capo in B, che a livello significante rappresenta l’unicità della cultura del caffè triestina.

A questo punto, ci si deve chiedere alla maniera shakespeariana: “Il caffè avrebbe un odore diverso sotto un nome diverso?”. Shakespeare direbbe di no. Giulietta amerebbe il suo Romeo anche se non si chiamasse Romeo, e nonostante il fatto che sia Montecchi e lei Capuleti. Inoltre, il caffè avrebbe lo stesso odore, sia che lo si chiami espresso o nero. Ma dopotutto, cosa sa Shakespeare del caffè? Niente, o anche meno di niente. A differenza di Goethe, che beveva caffè tutti i giorni e scoprì da dove veniva la magia dei suoi chicchi. Goethe, che amava le donne proprio per il loro nome e per il quale ognuna avrebbe avuto un odore completamente diverso con un diverso nome, come testimonia la poesia che dedicò al nome della sua amata. Ma né Shakespeare né Goethe conoscevano Trieste e non poterono innamorarsi del caffè triestino, a differenza di Joyce.

Joyce, che diceva che in una tazza di caffè, quando la mescoli con un cucchiaio di metallo e lo strofini contro i suoi bordi ovali, puoi “sentire il mare”.

La tazzina di caffè di Joyce come una conchiglia in cui il mare ondeggia? L’affermazione è joyciana che più non si può, soprattutto perché l’ha detta a Trieste, una città di mare dove il mare si sente tutto il tempo, a patto che non venga sommerso da motociclette o gabbiani. Il mito estivo della conchiglia, in cui si sente il mare anche quando lo si riporta a casa sulle colline, è in netto contrasto con la tazzina di caffè joyceana, in cui il mare riecheggia, perché non si può portare a casa. Se fai la stessa cosa da qualche altra parte, non funziona.

Il mare in una tazzina di caffè si sente joyceamente solo a Trieste.



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