PARCO CORONINI: FASCINOSO IERI, OSSUTO OGGI

PARCO CORONINI: FASCINOSO IERI, OSSUTO OGGI

di SONIA KUCLER

 

In una città che coltiva tenacemente i suoi ricordi il nome di un parco potrebbe durare per sempre. Il parco Coronini non ha una storia tormentata. Con il suoi centocinquanta anni è relativamente giovane rispetto ad altri giardini d’epoca di Gorizia e della regione; nasce dentro un’unica proprietà nobiliare fino alla morte del suo ultimo discendente; mantiene intatta la sua superficie, difeso da alti muri, siepi, reti e cancelli. Supera due guerre mondiali ma sul finire del secolo breve è la natura a decidere dove e come crescere, perciò si affaccia al nuovo millennio straripante di verzure. Le cure arrivano tardive (parliamo di un giardino deciso dalla mano umana che necessita di costanti attenzioni) e mentre molti patriarchi sono già collassati, le specie più aggressive hanno dominato incontrastate per decenni chiudendo in parte le suggestive vedute sulla città pensate dal suo ideatore, creando al contempo angoli e stanze ombrose e pittoresche dove chi le attraversava poteva meditare in pace e solitudine riducendo i propri affanni. Divenuto dopo la morte del conte Guglielmo parco pubblico, siamo nei primi anni ‘90, ha offerto una sorta di servizio di assistenza psicofisica ai suoi assidui frequentatori che forse nessuna spa o casa di cura avrebbe potuto garantire, un rapporto fatto di abitudini, di colori in cui il verde dominava, di riti intimi e indispensabili, di distacco dalla strada trafficata, di isola di pace.

 Chiuso negli ultimi cinque anni per vari e anche tragici motivi, il 22 marzo scorso ha riaperto i cancelli dopo un integrale restauro sostenuto dai fondi del PNNR durato circa un anno, sebbene le manutenzioni straordinarie fossero già iniziate prima. Un arco di tempo in cui pezzo dopo pezzo si son visti segare tanti alberi, sparire interi palmeti e canneti, risistemare sentieri, eliminare arbusti e siepi storiche, mettere poi a dimora cipressi, allori, mirti per seguire l’originaria impostazione di “giardino mediterraneo”, metter mano al restauro delle sue numerose statue, dei pergolati, delle scalinate e del tempietto eretto a inizi ‘900 sulla sommità di una collinetta artificiale. C’è stato un periodo, nell’ultimo anno, in cui passare per il viale XX Settembre e buttare l’occhio al parco era un’operazione psichicamente pericolosa perché la vista ricordava, ai meno giovani, certi fotogrammi di Apocalypse now di vietnamita memoria. E’ stato un periodo duro per chi aveva un legame sentimentale ed esclusivo con il parco. Il messaggio della Fondazione che governa il parco e le proprietà ereditate dai Coronini è invece rivolto al futuro del parco, alle inderogabili necessità di pulizia e risistemazione complessiva delle parti vegetali che si erano andate deteriorando (i vegetali sono un “materiale da costruzione” che ciclicamente invecchia e muore) e che bisognava per forza sostituire con un lavoro che avrebbe dato i suoi risultati estetici solo in tempi lunghi.

Tralasciando sia vani sentimentalismi, il mio legame con il parco è ben noto, sia approfondite valutazioni sulle scelte operate, quello che personalmente posso vedere – affacciandomi sull’entrata principale del parco Coronini – è un vasto giardino in cui i vuoti prevalgono sui pieni, la luce la fa da padrona, le quinte degli alberi che fiancheggiavano il viale principale e stavano alle spalle della bella architettura dei pergolati con le nicchie delle statue settecentesche del Marinali, sono magicamente scomparsi, rimangono solo alcune conifere spelacchiate e un bel platano. Emergono e prevalgono invece i prati ripiantati, le numerose agavi e yucche reintrodotte anni fa e in fase di buona crescita sia sulla scalinata d’accesso che sul belvedere dove sta riprendendo piede il mio amato
ficus repens. Nella parte verso la collinetta la pulizia è stata implacabile, emergono con forza le sagome delle grandi rocce carsiche di cui il parco è costellato a segnare l’altra struttura portante del giardino, mentre salgo il sentiero verso il tempietto incontro l’ombra piacevole, anche se un po’ diradata, della lecceta. Qui mi fermo nella descrizione puntuale perché il mio ragionamento vuole condurre altrove. Nell’assenza, purtroppo reale, di una massa vegetale che imprima una piacevolezza di visione, morbida e continua, in cui ad esempio gli allori tagliati a siepe danno al viale principale un aspetto piuttosto geometrico e quasi irsuto con buona pace del ripristino filologico, in questa temporanea assenza emerge con enfasi l’ossatura del giardino: le forme del suolo, le rocce, le costruzioni architettoniche, quello che da fine ‘800 a inizi ‘900 era stato costruito gradualmente ora è un tutto estremamente evidente. Emergono sul tutto le statue, luminose e confortanti, numerose e di bella fattura come non se ne vedono di simili né a Gorizia né nei dintorni, liberate dall’ombra polverosa del tempo. Le statue raccontano la storia tutta particolare della moda laica, filosofica ed in questo caso anche turistica che nei secoli precedenti dominava nella costruzione dei giardini, nessuna croce, nessuna madonna, solo figure dense e sinuose a rappresentare gli eterni miti greci, Fiume, Venere, Apollo, Narciso…il legame indissolubile tra Uomo e Natura. Quando condurre l’ospite a visitare il proprio giardino era un po’ condurlo a conoscere l’intimo sentire del suo proprietario o della sua proprietaria. Qui, lui si chiamava Alfredo, lei Carolina.

 



Articolo originale in Italiano.